È davvero lui il responsabile di obesità, colesterolo e diabete? Tutto quello che c'è da sapere sull'olio di palma.

Le indagini furono brevi e il colpevole fu dato in pasto all’opinione pubblica ancora prima che iniziasse il processo. Il pericoloso Boss dei Grassi Saturi aveva un nome e un cognome: Olio Di Palma, proveniente dal Sud Est Asiatico. 

Il 13 dicembre del 2014 è scattato il rinvio a giudizio, emesso dall’Unione Europea sotto forma di un regolamento sull’etichettatura (il n. 1169/2011), che obbligava a specificare fra gli ingredienti dei prodotti alimentari la presenza del pericoloso criminale, che fino ad allora si era nascosto dietro l’identità di Olio Vegetale.


Ma chi è davvero il Di Palma? Chi si cela dietro la sua faccia da colpevole perfetto e predestinato?


I sospetti attorno alle sue attività losche arrivano da lontano. Già nel 2010 “olio vegetale” era fra le nove “cose” che gli italiani non vorrebbero trovare sulle etichette dei prodotti alimentari, assieme alle scritte troppo piccole e alle scadenze illeggibili. Curiosamente seguita dagli acidi grassi trans, che sono proprio i responsabili della diffusione dell’olio di palma.


Perché? Prima dell’ascesa dell’Olio Di Palma il mercato dei grassi era dominato dal clan degli Acidi Grassi Trans (grassi insaturi potenzialmente dannosi per la salute secondo l’ente governativo statunitense). Fu sgominata dalla Food and Drug Administration nel maggio del 2005, quando obbligò le aziende a mostrare la quantità dei grassi trans. Da allora iniziò l’ascesa del Di Palma, che per compiere i suoi crimini non si serviva dei pericolosi trans e aveva gli indubbi vantaggi di essere economico, inodore, insapore e di conservare più a lungo i cibi.


L’industria alimentare si è subito messa in affari con l’Olio Di Palma inserendolo in una quantità enorme di prodotti confezionati: dalle merendine ai biscotti agli snack alle creme spalmabili. Per anni è stato il grasso saturo perfetto: costa molto meno del burro, non deve essere idrogenato (come la margarina, che è un derivato dell’olio di palma) e può nascondersi dietro il rassicurante nome di Olio Vegetale. Inoltre è meno nocivo degli oli che contengono acidi grassi trans.


I numeri sono enormi. In dieci anni Olio Di Palma ha conquistato il mercato alimentare. Nel 2008, la produzione globale di olio di palma (estratto dalla polpa dei frutti di palma da olio sudamericana e palma maripa) e di palmisti (ottenuto dai semi contenuti negli stessi frutti) ha raggiunto le 48.000.000 di tonnellate. Secondo le previsioni della FAO la domanda globale di olio di palma raddoppierà entro il 2020 e triplicherà entro il 2050.


Ma più si allargava il mercato, più crescevano gli oppositori. Fra i primi, già alla fine degli anni Ottanta, il clan che fa capo all’olio di semi di soia, noto negli Stati Uniti come American Soybean Association (ASA). In Malesia sostengono che l’ASA investì 15 milioni di dollari per finanziare campagne contro gli oli tropicali, ma non riuscì a frenarne la scalata.


In Italia il tema è stato portato alla luce dai giornalisti Roberto La Pira e Dario Dongo del sito internet Il Fatto Alimentare, che nel giugno del 2014 hanno lanciato la petizione “Stop all’invasione dell’olio di palma”. Quando anche l’Unione Europea ha obbligato le aziende a specificare la sua presenza nelle etichette la condanna dell’opinione pubblica è stata rapida e implacabile.


Il processo è iniziato pochi mesi dopo. L’accusa inizia subito con un colpo di scena: l’arma del delitto, fino ad allora rimasta oscura. Sarebbe la proteina p66Shc, definita “il revolver dell'olio di palma” da Adnkronos, che si trova nel palmitato, un acido grasso presente nell’olio di palma. Si tratterebbe di una “proteina killer” che danneggia le cellule beta del pancreas, produttrici di insulina.


La difesa, però, non si fa cogliere impreparata e attacca direttamente la ricerca impugnata dall’accusa, che è stata condotta in Italia dal professor Francesco Giorgino e dal suo gruppo dell’Università di Bari, con la collaborazione delle Università di Pisa e di Padova. Nell’integrazione “Erratum”, gli stessi ricercatori hanno specificato di aver fatto uso per il 60% olio di palma idrogenato, mentre l’industria alimentare si affida all’olio di palma non idrogenato (come spiega ancora Adnkronos).

L’impianto accusatorio vacilla, ma è ancora il professor Giorgino a offrire una carta vincente, dalle colonne del Fatto Alimentare: l’idrogenazione dell’olio di palma non influisce sulla percentuale di acido palmitico perché l’acido è già saturo e non può idrogenarsi.


La difesa non demorde, ha un’altra carta da giocare: ribaltare il giudizio dell’opinione pubblica. Infatti secondo il Fatto Alimentare AIDEPI, l’associazione dei produttori di dolci e prodotti da forno, investe oltre un milione di euro in pubblicità sui giornali e 45 mila euro per una campagna indirizzata ai direttori “basata su incontri di formazione, pranzi ristretti e altre forme di pressione”.

Paolo Barilla, vicepresidente della nota azienda italiana e responsabile AIDEPI, afferma che il «Paese caduto in un tranello mediatico internazionale» (Linkiesta) e in Parlamento vengono depositati due documenti per tutelare l’utilizzo di olio di palma, presentati durante l’evento “La verità, vi prego, sull’olio di palma” promosso dalle testate Strade e Formiche il 14 ottobre 2015 nella sala stampa di Montecitorio, dove è stato presentato uno studio della dottoressa Elena Fattore dell'Istituto Mario Negri che dimostrerebbe l’assenza di un nesso diretto tra problemi cardiovascolari e l'uso di olio di palma.


L’ultimo capitolo arriva a gennaio 2016: un botta e risposta fra Alice Pace di Wired e Roberto La Pira del Fatto Alimentare. Pace ha scritto un articolo dal titolo Perché tutti odiano l’olio di palma dove parla di isteria collettiva e massiccia campagna di boicottaggio. La Pira risponde che la nota di Wired “è caratterizzata da alcune imprecisioni e da un tono conciliante verso i produttori dell’olio tropicale”.


Si tratta davvero di un falso mito? Abbiamo puntato il dito contro il colpevole sbagliato?


* * *


Non serve nemmeno dire (ma intanto lo dico) che parole come “clan” e “boss” sono state usate con un chiaro intento ironico, così come il tono dell’intero pezzo. Credo di aver letto una cinquantina di articoli prima di scriverlo e sono rimasto sconcertato dalla divergenza delle opinioni e dalla mancanza di chiarezza sulla quale ho provato a fare un po’ di sana ironia.

Ora veniamo alle conclusioni, però. Non sono un esperto, ma mi piace provare a ragionare: in tutta questa confusione, mi pare di aver trovato due punti fermi.


Il primo: se ci fidiamo della ricerca dell’Università di Bari (e non ho trovato motivi per non fidarmi) l’acido palmitico ha effetti negativi sul nostro organismo. Dunque basta guardare le tabelle nutrizionali per farsi un’idea: l’olio di palma contiene 43.5 g di acido palmitico, il burro circa la metà, l’olio d’oliva circa un quarto.

Partendo dal presupposto che qualunque dieta salutare limita l’assunzione di grassi saturi, possiamo dire che meno olio di palma si assume meglio è. Questo non significa demonizzare ogni singolo prodotto che contiene olio di palma. Ma stare attenti al fuoco incrociato: se siete abituati a mangiare biscotti a colazione, una merendina a metà mattinata, cracker a pranzo, pane e crema spalmabile a merenda e un dolce a fine cena sappiate che ognuno di quei prodotti può contenere olio di palma.


Il secondo: il disboscamento della foresta tropicale. La Malesia ha fatto molto per controllare la produzione del proprio olio di palma, l’Indonesia molto meno. Però alcune certificazioni possono dare buone garanzie sulla produzione sostenibile: la RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil), nata nel 2004, e soprattutto le più restrittive certificazioni POIG (Palm Oil Innovation Group), lanciate nel 2013 con l’appoggio di diverse organizzazioni non governative tra cui Greenpeace e WWF.

Foto di: Katia Rembold

Matteo Lusiani Sa di non sapere, per questo si informa.

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